Il suo nome era…

Roberto Beccantini2 maggio 2017

Allora: cinque gol al Bayern nelle due partite dei quarti (con uno in fuorigioco, per carità, ma nessuno è perfetto); tre all’Atletico nell’andata delle semifinali. Il suo nome era, per dirla allo Giorgio Gaber, Ronaldo Cristiano, ma lo chiamavan drago. Cos’altro aggiungere? Niente, senonché la sua tripletta ha fissato il risultato del derby, spalancando la finale di Cardiff ai collezionisti di Champions.

Ridurre l’ordalia alle imprese di uno non si può, perché a Fusignano si arrabbiano, ma non si deve neppure allargarla alle trovate degli allenatori, positive o negative che fossero, perché, in questo caso, darebbero di fuori nei bar sport. Mi butto: primo tempo Real, secondo più equilibrato ma «materassai» troppo sterili e persino troppo casti. Le due finali in tre anni, al Cholo, non le cancellerà nemmeno Domineddio, ma quello schema-tortura che era diventato il suo marchio ha rivelato una palese usura.

Il calcio di Zidane non è spaziale o speciale. E’ un calcio normale, di possesso e girotondi, sospeso tra la vena di Marcelo, il righello di Kroos e la birra di Asensio, in attesa che la palla arrivi dove è più comodo che arrivi. A 32 anni, e dopo che la sua isola gli ha dedicato un aeroporto, Cristiano fa meno l’ala e più il centravanti, ruolo al quale arrivò – a Manchester, in particolare – dopo essere nato ala (allo Sporting Lisbona). Un’agenzia di maniaci è riuscita a non inserirlo fra i primi cento dribblatori d’Europa: Leo Messi, tanto per rendere l’idea, è solo sesto. Ecco: a Cristiano rodeva proprio l’esito del «Clasico», Real-Barcellona 2-3, ma soprattutto il tabellino, lui zero e quell’altro due.

Una sola palla-gol, l’Atletico, sventata da Keylor Navas. E un solo inchino, l’arbitro: il secondo giallo risparmiato a Isco. La normalità del Bernabeu. Tutto il resto, Cristiano.

Il crollo (nonostante)

Roberto Beccantini30 aprile 2017

Parafrasando Raymond Carver, di cosa parliamo quando parliamo di calcio (What we talk about when we talk about love). Parliamo della Roma. Ha perso il derby, è scivolata a nove punti dalla Juventus, rischia che il Napoli le soffi il secondo posto. Mi è sembrata scoppiata, sempre e comunque prigioniera di una Lazio che Inzaghino, orfano di Immobile – influenzato e, dunque, ininfluente – aveva mirabilmente disposto a catenaccio e contropiede, con Keita solo a ballare con i lupi. Però due gol.

La Roma, già. Siamo sempre lì. Spalletti o non Spalletti, Totti o non Totti, De Rossi o non De Rossi, stadio o non stadio. L’ultimo, fragile, Piave rimane la storia dei fatturati. Non avevano, allenatore e giocatori, neppure l’alibi delle coppe: fuori da tutte, nazionali o extra. Il pareggio della Juventus a Bergamo li proiettava a un virtuale meno sei (a quattro round dall’ultimo gong).

Come non detto. Il verdetto del campo è stato impietoso. E questa volta, come tante altre, non ci si può aggrappare all’arbitro. L’avevano fatto, nell’intervallo, i laziali e molti pazienti di fede napoletana con i loro sms di puro sdegno. Il rigore non concesso a Lukaku per pedata di Fazio, quello regalato a Strootman per simulazione manifesta (proprio lui, già protagonista di uno svenimento all’andata sotto la doccia di Cataldi). Brutta domenica, per Orsato e il suo metro ambiguamente inglese.

Essere così lontano dalla vetta nonostante un pacchetto di tredici penalty (contro i tre della capolista e i sei del Napoli) significa che se c’è qualcosa che non va, non è lassù al nord, ma nel cuore della società o nella pancia dello spogliatoio.

Bisognerebbe concentrarsi sui fatti: Dzeko, per esempio, le partite che contano non le morde, al massimo le graffia. Ecco: ricominciare da qui. A radio possibilmente unificate.

È il calcio, bellezze

Roberto Beccantini29 aprile 2017

E’ stata una partita che aiuta a crescere tutti, anche le grandi squadre. L’Atalanta ha spremuto per un tempo la magna Juventus trovando il gol con Conti, capace, lui tra i pochi, di reggere lo strascico fisico di Mandzukic.

Gasperini marcava a uomo, Masiello su Dybala, Spinazzola su Cuadrado, la qual cosa non gli impedisce di giocare un calcio moderno, un calcio che lo sta portando in Europa. Allegri ha aspettato i cadaveri sulla riva del fiume. Quanti errori, Chiellini e Khedira. E, più in generale, quante leggerezze là dove ogni scarabocchio può diventare letale, come ha certificato la frittata del due pari, a monte della carambola Barzagli-Freuler. Higuain, poi, ne aveva sempre uno addosso (Caldara) se non due (Caldara, Toloi). Gomez era il falso nueve che sabotava le geometrie.

Tutt’altra musica, alla ripresa. La Juventus è stata fortunata nell’autogol di Spinazzola, sfortunata nella consecutio temporum del braccio di Toloi-fuorigioco di Mandzukic (rigore, perché il braccio era antecedente), brava nell’impallinare l’ottimo Berisha con Dani Alves, avanzato al posto di Cuadrado dopo l’ingresso di Lichtsteiner al posto del colombiano. Splendido, il lancio di Pjanic; non altrettanto la sua notte. E Dybala, meglio decisamente a gioco lungo, anche se il rendimento esterno rimane clamorosamente sbilanciato (otto gol in casa, uno a Empoli).

Sembrava che Allegri le avesse azzeccate tutte pure stavolta. L’epifania di Barzagli, viceversa, ha ridato fiato alle trombe atalantine, sulle quali Buffon si è speso fino all’ultimo pugno. Si può prendere gol in tanti modi, soprattutto se hai di fronte il coraggio e la stoffa di una Dea, ma non come l’ha preso Madama, risultato in mano e palla al piede.

Eppure era la stessa diga che aveva resistito alla piena di Messi, Suarez e Neymar. È il calcio, bellezze.